Il “Mare d’inverno” (di Fare Verde) è un impegno militante per salvare la natura
Volontariato, l’associazione ecologista prosegue le iniziative di pulizia di tratti di spiaggia per il 32mo anno consecutivo
«Il mare d’inverno
è solo un film in bianco e nero visto alla TV.
E verso l’interno,
qualche nuvola dal cielo che si butta giù.
Sabbia bagnata,
una lettera che il vento sta portando via,
punti invisibili rincorsi dai cani,
stanche parabole di vecchi gabbiani.
E io che rimango qui sola a cercare un caffè.
Il mare d’inverno
è un concetto che il pensiero non considera.
E’ poco moderno,
è qualcosa che nessuno mai desidera. (…)»
Tutti conosciamo questo testo poetico scritto e cantato da Enrico Ruggieri nel 1983. Ad esso si ispirò l’associazione ecologista Fare Verde per lanciare un’iniziativa che è giunta quest’anno alla XXXII edizione e che consiste nella pulizia d’un tratto di spiaggia a partire dall’ultima domenica di gennaio fino alle prime domeniche di marzo per ricordare che l’inquinamento dura tutto l’anno e per riportare al centro dell’attenzione la necessità di ridurre i rifiuti alla fonte, riusarli e riciclarli secondo i principi di una economia circolare che rispetti la Natura vivente.
Il mare d’inverno, «che il pensiero non considera», non è solo il titolo di una canzone o di uno scatto fotografico, ma rispecchia una visione dell’ecologia non utilitaristica, biocentrica, e giova a introdurre la distinzione tra ecologia superficiale ed ecologia profonda. La prima si limita a gestire in modo responsabile quelle che sono considerate le nostre risorse vitali, la seconda mette in discussione un modello di società e di economia fondata sulla crescita della produzione delle merci e dei consumi. Se per l’ecologia superficiale bisogna salvare il mare per farci il bagno e avere ancora pesci da mangiare, per l’ecologia profonda bisogna salvarlo non solo per questi motivi, ma perché è sacro, ha un valore in sé. Certo è utile proteggere l’ambiente con leggi e depuratori, conservare zone protette, ridurre l’inquinamento e i consumi con tecnologie meno invasive e nocive, ma non basta. L’ecologia superficiale è come una nave che avvertendo il pericolo di andare a sbattere contro un iceberg cerca di rallentare la sua corsa, ma non cambia la rotta, come invece suggerisce l’ecologia profonda.
La questione ambientale infatti nasce da un determinato atteggiamento della cultura dominante nella civiltà industriale, da una visione antropocentrica che degrada la natura vivente a mera utilità, a risorsa economica, a parco divertimenti e non pone freni alla avidità dell’uomo, come era invece nelle civiltà tradizionali che riuscivano a preservare un equilibrio dinamico tra uomo e natura e non conoscevano i “raffinati” concetti economici di PIL, di crescita, .
Non si può salvare il mondo senza mettere in discussione il paradigma della nostra civiltà che è la crescita con il relativo mito del progresso. La civiltà industriale, che ha la crescita come sua caratteristica essenziale, non fa altro che sostituire «materia inerte (fabbriche, città, strade, impianti, macchine) al posto di sostanza vivente (foreste, paludi, praterie, savane, barriere coralline)» (Guido Dalla Casa). Ma «come si può fermare quella terribile crescita economica-demografica che distrugge la Vita alterandone i processi essenziali?».
Non c’è altra strada che una rivoluzione culturale profonda che modifichi il nostro punto di vista, acquisendo una visione del mondo biocentrica, secondo cui la Terra è un tutto organico di cui facciamo parte. Come scriveva nel 1954 il capo indiano Seattle al presidente degli Stai Uniti, che gli proponeva di comprare le loro terre: «tute le cose sono collegate. Ciò che succede alla Terra, succede ai figli della Terra. Non è l’uomo ad aver tessuto a trama delle vita: egli ne è solamente un filo. Tutto ciò che lui fa alla trama, lo fa a se stesso». Questa in nuce è l’atteggiamento dell’ecologia profonda.
Purtroppo non abbiamo più molto tempo. L’ambientalista americano Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute e autore di varie pubblicazioni, tra cui “Il piano B”, che indica le misure necessarie per «recuperare un pianeta sotto stress e una civiltà nei guai» e che viene costantemente aggiornato di edizione in edizione, usa una significativa metafora: quella del 29mo giorno. Supponiamo, dice lo scrittore americano, che una ninfea raddoppi la propria superficie ogni giorno. Al 29mo giorno, quando solo metà del lago è ricoperta, ci illudiamo che nulla di grave sia ancora successo e che abbiamo ancora tempo.
La crescita economica e demografica è in rotta di collisione con la biosfera, perché presuppone una crescita infinita in un Pianeta finito e distrugge i cicli vitali. Il tema del nostro tempo è riannodare il filo spezzato tra uomo e Natura.
Articolo scritto da Sandro Marano
Preso da: Barbadillo.it